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  • Writer's pictureSergio Focardi

L’inflazione non è il problema principale


Oggi si parla molto di inflazione. Da una parte si pensa che l’inflazione distrugga il valore del capitale e riduca il potere d’acquisto del reddito, dall’altra si teme che l’economia sarà spinta verso la recessione o, peggio, verso la stagflazione, cioè inflazione e stagnazione. Le banche centrali promettono di bloccare l’inflazione alzando i tassi di interesse. Alcuni autori esortano le banche centrali a prendere misure drastiche, rialzando fortemente i tassi di interesse.


In questo post vorrei discutere perchè ritengo che un rialzo dei tassi di interesse sia dannoso. Dividero’ l’argomentazione in due parti: nella prima discutero’ le azioni delle banche centrali accettando il concetto classico di inflazione, mentre nella seconda parte mostrero’ che il concetto classico di inflazione non è applicabile alle economie moderne. L’articolo Why Should Asset Management Be Interested In New Economic Thinking? che ho scritto in collaborazione con il Prof Fabozzi discute di questo argomento dal punto di vista dell’asset management e introduce il concetto di Economic Theory Risk come uno dei nuovi rischi che i gestori devono affrontare.


Le azioni delle banche centrali, sopratutto la Federal Reserve americana, oggi seguono questa narrativa: E’ necessario alzare i tassi di interesse per ridurre la domanda. La riduzione della domanda farà alzare il tasso di disoccupazione. Un più alto tasso di disoccupazione farà abbassare l’inflazione. Queste azioni probabilmente porteranno l’economia in una fase di recessione ma questo è comunque il male minore rispetto al rischio di inflazione galoppante.

Questo ragionamento puo’ sembrare tortuoso e perverso. Perchè alzare il tasso di disoccupazione per abbassare l’inflazione? La risposta sta nella curva di Phillips. William Phillips era un economista neozelandese che ha speso la maggior parte della sua carriera accademica alla London School of Economics. Nel 1958, Phillips pubblico’ un articolo che sosteneva l’esistenza di una relazione empirica fra livello di disoccupazione e inflazione che, in suo onore, fu chiamata la curva di Phillips.

Questa narrativa, tuttavia, è in contrasto con la realtà empirica attuale. Infatti, nelle ultime tre decadi, la curva di Phillips è diventata piatta. E’ necessario un grande aumento dei tassi di interesse per produrre un effetto apprezzabile sull’inflazione. Il cambiamento della curva di Phillips è probabilmente legato ai cambiamenti nella struttura delle economie moderne e nei metodi di produzione. Le economie moderne sono segmentate in sottoeconomie che hanno differenti dinamiche. Il tasso di occupazione, in realtà è diversamente distribuito in vari settori. Inoltre l’automazione rende le economie elastiche rispetto alla domanda. Infatti, per molte categorie di prodotti e servizi, grazie all’automazione, é possibile produrre di più con effetti marginali sull’occupazione.

Articoli accademici e un recente working paper della Federal Reserve, a firma Ratner e Sim, riprendono l’analisi dell’economista polacco Michal Kalechi che sosteneva che l’inflazione è essenzialmente un fenomeno legato al conflitto capitalisti-lavoratori. La perdita di potere contrattuale dei lavoratori negli ultimi trenta anni ha dato più potere ai capitalisti che hanno potuto determinare i prezzi in modo da massimizzare il loro profitto.


Questa visione alternativa suggerisce che un sostanziale incremento di tassi di interesse, che ora le banche centrali vogliono portare al livello del tasso naturale di interesse, in pratica vicino al 2%, farà pagare un caro prezzo ai lavoratori e, più in generale, alle fasce di popolazione economicamente più deboli. L’economia entrerà in recessione ma il prezzo della recessione sarà pagato primariamente dai lavoratori.


Questa narrativa sociale, suggerisce che il fenomeno inflazione dovrebbe essere visto non come fenomeno finanziario ma come sintomo di un potere eccessivo di cui godono ora le aziende rispetto ai lavoratori. Anzichè spingere l’economia verso la recessione e creare grandi masse di disoccupati, sarebbe necessario costruire molto rapidamente un nuovo contratto sociale che riduca le ineguaglianze di reddito e ricchezza e che dia piu’ potere ai lavoratori.


Veniamo ora ad una visione più radicale del problema inflazione. Il concetto classico di inflazione è quello dell’aumento percentuale dei prezzi. Se prodotti e servizi rimangono stabili nel tempo e tutti i prezzi cambiano della stessa percentuale inflazione è un concetto ben definito. Se prezzi e quantità cambiano in varie direzioni, alcuni prezzi aumentano mentre altri diminuiscono, allora il concetto di inflazione diventa in parte arbitrario. Infatti, è ben noto che è impossibile definire in modo univoco un indice dei prezzi di variabili eterogenee.


Ma il vero problema è dato dal fatto che le economie moderne avanzate sono sistemi complessi evolutivi in cui prodotti e servizi cambiano qualitativamente e sono soggetti ad un processo di innovazione per cui alcuni prodotti non sono più commercializzati e sono sostituiti da nuovi prodotti. In queste condizioni il concetto classico di inflazione non è applicabile.


In pratica l’inflazione è misurata calcolando l’indice di variazione dei prezzi di un paniere di beni che costituisce un sottoinsieme di tutti i prodotti e servizi. Ma in questo modo i cambiamenti di prezzo conseguenti a cambiamenti qualitativi e innovazione sono calcolati come inflazione. L’inflazione come è calcolata oggi, è un concetto che non puo’ essere applicato ad economie evolutive.


Per avere un’idea intuitiva, il PIL nominale procapite americano è aumentato di 36 volte nel periodo 1950-2020. Questo incremento, tuttavia, è suddiviso in crescita reale 4 volte e inflazione 9 volte. E’ intuitivo che l’inflazione include l’enorme innovazione che c’è stata fra il 1950 e il 2020. Una persona che oggi percepisse lo stipendio che una posizione lavorativa analoga percepiva nel 1950 letteralmente morirebbe di fame ma non semplicemente a causa dell’inflazione ma a causa dell’esplosione di prodotti e servizi oggi disponibili.


Per dicutere il problema inflazione dobbiamo prima discutere un altro importante punto. Nella trattazione macroeconomica classica si ipotizza che la quantità di output sia un concetto ben definito e misurabile. Ma anche il concetto di misura quantitativa dell’output non si applica ad economie complesse evolutive. Non possiamo aggregare crociere, banane, laptop e le migliaia di altri prodotti e servizi oggi disponibili. La quantità fisica output non esiste.


Possiamo pero’ aggregare usando i prezzi calcolando il valore dell’output, cioè il PIL nominale. Pero’ siccome i prezzi sono prezzi relativi abbiamo il problema di confrontare il PIL in momenti diversi. Dobbiamo determinare il fattore con cui scontare il PIL nominale in momenti diversi per calcolare il PIL reale. In pratica l’output economico è calcolato scontando il PIL nominale con l’inflazione calcolando quindi il PIL reale.


Il punto critico è che oggi le decisioni economiche sono in prese, almeno in parte, usando una nozione di crescita economica basata sui cambiamenti percentuali del PIL reale. In questo modo si trascurano completamente i cambiamenti qualitativi. I cambiamenti qualitativi e l’innovazione non sono considerati vera crescita economica.


Inflazione e PIL reale sono termini teorici legati ad un procedimento di calcolo dell’inflazione. Il procedimento corrente di calcolo dell’inflazione ignora completamente l’innovazione e i cambiamenti qualitativi dell’output economico. Alzando i tassi fino a provocare una recessione e a creare un elevato livello di disoccupazione le banche centrali deprimono i processi innovativi.


Questo problema è serio oggi ma lo diventerà molto di più quando si cercherà effettivamente di implementare il decoupling della crescita economica dall’utilizzo delle risorse naturali. Come confermato dal COP26 (26th United Nations Climate Change Conference) sia i governi sia il mondo industriale scommettono sulla green growth, cioè sulla convinzione che la tecnologia risolverà tutti i problemi della transizione verde senza cambiare i consumi.

Al momento non esistono evidenze empiriche che questo sia possibile. Mentre è forse possibile risolvere il problema energetico con sorgenti alternative rimane il problema delle risorse naturali. Oggi non si dispone della capacità di sintetizzare i materiali richiesti dall’industria a partire da componenti abbondanti. Forse diventerà possibile in futuro ma al momento dobiamo usare le risorse naturali. La circolarità dell’economia, oltre ad essere molto dispendiosa dal punto di vista energetico, puo’ essere solo parziale.


Per assicurare crescita economica svincolata dall’utilizzo di risorse naturali è necessario rivedere il concetto di crescita economica ed accettare che la crescita qualitativa sia reale crescita. A questo fine la teoria economica deve cambiare profondamente e il processo decisionale economico deve essere basato su concetti insieme quantitativi e qualitativi. L’articolo The Economic Theory of Qualitative Green Growth pubblicato a Febbraio del 2022 dalla rivista Structural Change ed Economic Dynamic, di cui sono coautore, delinea la teoria matematica della crescita qualitativa.


Il punto chiave è che le quantità economiche sono concepite come variabili astratte legate alle quantità finanziarie osservabili. Accanto ai cambiamenti teorici è pero’ necessario un profondo cambiamento nella gestione dell’economia. Il processo decisionale deve trarre ispirazione dalla Finanza Funzionale di Abba Lerner. La politica economica deve occuparsi dello sviluppo armonico della società dove il benessere dei cittadini deve essere il pricipio fondamentale.


E’ difficile credere che esistano oggi forze che spingano verso un tale cambiamento. La transizione verde è il solo fattore che puo’ davvero produrre una società più giusta ed inclusiva. Infatti la transizione verde implica un cambiamento culturale che spinga verso una società meno competitiva dove abbia più valore la fruizione dei beni piuttosto che il loro possesso.

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